Dove non mi hai portata recensione e intervista

recensione dove non ti ho portata e intervista

Arrivato tra i finalisti al Premio Strega 2023, Dove non mi hai portata è un libro diverso dai soliti romanzi, perché è un racconto-inchiesta, in cui troviamo tutta la perplessità e la voglia di rivelazioni proprie dei romanzi odierni e tutte le minuzie, analizzate con cura, delle inchieste. La prosa del testo è fitta, come quella di un articolo di giornale ben strutturato. Maria Grazia Calandrone, conduttrice radiofonica e scrittrice, indaga la vita vissuta, e la morte avvenuta, dei suoi genitori naturali, Lucia e Giuseppe. Il libro è stato scritto di getto, in soli 44 giorni, ma porta con sé indagini e interviste fatte in un periodo ben più lungo, ma sempre poco a confronto del tempo passato a chiedersi il perché di tanti avvenimenti. L’attesa della verità probabilmente non è placata neppure dopo la pubblicazione del libro. D’altronde, come si può dare una risposta corretta all’abbandono di una figlia? L’autrice ci ha provato proponendo delle ipotesi che, se al lettore possono sembrare azzeccate, a lei lasciano l’amarezza di un non senso o di un senso troppo lontano dalla sua percezione.

Era il 1965 quando Lucia fu trovata cadavere nell’acqua di Fiume, il nome dato al Tevere dagli abitanti della Roma di allora, quasi volessero personificare la natura di quel luogo. Lucia aveva 29 anni e lasciava una bambina di otto mesi. “Lucia è polvere” e quella polvere ha causato allergia a Maria Grazia Calandrone. L’antistaminico per attenuarne gli effetti è la scrittura. Scrivendo ci ha mostrato come la storia di Lucia e Giuseppe non è stata una “sfida romantica”, almeno non solo. E’ la storia di un amore. Illegittimo. Come illegittima è la bambina nata da questo amore e per questo designata con un numero, il 1068, nell’istituto dove, riconosciuta solo dalla madre, viene sottratta pure a questa e quindi “lavorata dai servizi sociali”. La madre è “forzata a non comparire” durante le fasi del riconoscimento della figlia, perché all’epoca questa era la sorte di chi era riconosciuto da un solo genitore. Quando il genitore era la donna e il marito ufficiale non riconosceva la paternità del neonato, i figli venivano tacciati di illegittimità. E il marito era “uomo diverso” costretto a sposare una donna che non amava perché non avrebbe potuto amare nessuna donna e su di lei riversava la rabbia delle sue frustrazioni. “Luigi è un infelice e un obbediente. Non si oppone al suo stesso matrimonio, perché non crede di poter sanare la sua congenita infelicità”.

Non pochi sono stati gli ostacoli riscontrati dall’autrice durante le sue ricerche, perché i figli dichiarati illegittimi non possono ricevere, per cento anni, informazioni sensibili sulle loro madri e su sé stessi. A loro è concessa solamente la possibilità di visionare la cartella clinica del giorno in cui sono nati.

Povertà, matrimoni combinati per motivi territoriali, genitori che impongono le proprie decisioni ai figli, mogli che non sanno disubbidire ai mariti: questa è la società del secondo dopoguerra. Ma Lucia non ci sta e preferisce la stabile prospettiva di una vita illegale e densa di miseria, dovuta alle ferree e ipocrite leggi del moralismo borghese. E’ giovane Lucia, ma tragicamente capirà che non c’è scampo contro queste leggi, soprattutto contro quelle celate nei testi scritti, ma ben evidenti nelle menti delle persone. E così: “Lucia va via, pure dalla sua vita”, riuscendo però a far si che “la bambina non fosse toccata dal dramma che stava sconvolgendo la sua vita e che avrebbe avuto il suo tragico epilogo nel Tevere”.

Questo libro ci dice molto sul potere della scrittura, sul peso dei giudizi sociali e soprattutto sull’amore di una madre, sia naturale che adottiva, e il titolo ce lo spiega chiaramente: dove non mi hai portata. E la protagonista, cioè l’autrice che scrive, non è stata portata nella morte, ma lasciata alla vita. E lo stesso fa Maria Grazia nei confronti della memoria di Lucia, con la sua dedica iniziale: ogni cosa che ho visto di te, te la restituisco amata.

Significativo il capitolo intitolato Il male minore, andrebbe letto in classe per far capire ai ragazzi quanta strada abbiamo fatto negli ultimi 70 anni e di come il 1968 è stato un anno di svolta per le politiche sociali. Da qui si può passare a riflessioni più accurate, per ricordare che ogni giudizio non richiesto è un’accusa che può far male.

Col permesso dell’autrice condividiamo qua un estratto del sopradetto capitolo, sperando che possa essere utile a tutti i docenti che ci leggono:

Nei casi di infedeltà coniugale, il diritto italiano dell’epoca prevede una vistosa disparità di trattamento tra mogli o mariti. Secondo gli articoli 559 e 560 del codice penale, che disciplinano rispettivamente i reati di adulterio e concubinato, la moglie incorre nel reato anche se tradisce il marito un’unica volta. Il delitto è punibile a querela del marito e, con lei, è trascinato nella pena l’amante. Se il tradimento evolve in relazione stabile, dunque se fra i due attori del reato verosimilmente si installa Amore, il castigo aumenta.
Quando invece è il marito a tradire, l’infedeltà viene punita solo se l’uomo convive «nella casa coniugale o notoriamente altrove» con la sua «concubina». La Corte costituzionale affronta ripetutamente la questione della palese disuguaglianza e ripetutamente la sottoscrive, adducendo la motivazione che «oggetto della tutela», nella norma dell’articolo 559 del codice penale, «non è esclusivamente il diritto del marito alla fedeltà della moglie, ma il preminente interesse dell’unità della famiglia, che dal comportamento infedele della moglie è leso e messo in pericolo in misura che non trova riscontro nelle conseguenze di un’isolata infedeltà del marito».
Retropensiero, giusto un filo evoluto, della tradizione omerica Penelope-Ulisse. La donna è il collante del nucleo domestico. Solo a fine dicembre 1968, sulla base dell’articolo 29, che stabilisce «l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi», la Corte dichiara finalmente incostituzionali i commi 1 e 2 dell’articolo 559 (reato dell’adulterio semplice compiuto dalla moglie), ma deve passare ancora un altro anno (sentenza del 3 dicembre 1969 n. 147) perché l’incostituzionalità venga estesa ai commi 3 e 4 degli articoli 559 (reato di relazione adulterina della sola moglie) e 560 (concubinato del marito). La legge arranca dietro i piani di evidenza della prassi e della giustizia, spesso ufficializzati con ritardi rischiosi per la vita.
Nel 1964 Lucia e il coimputato amante Giuseppe sono infatti due ricercati. La pena è due anni di galera, deterrente che vorrebbe arginare la piena di un amore che si è già tradotto nella costituzione di una nuova vita, con diritti naturali equivalenti. Come stringere chiunque nella vita che non vuole piú vivere, come obbligarlo alla convivenza in un disamore coniugale, ormai naturalmente concresciuto dal tradimento in delusione e ferocia?

Abbiamo posto all’autrice tre domande, ecco le sue risposte:

  • Nel suo libro cita Dante e la sua definizione di “intelletto d’amore”, può esporci meglio il suo pensiero a riguardo?

L’intelletto d’amore, come scrivo nel libro, è la descrizione dell’amore immortale dei mortali, cioè della nostra capacità di attraversare il mondo alla luce di un’intelligenza affettiva, che ci permetta di comprendere con la mente e con il sentimento nello stesso tempo.

  • Ha citato diversi poeti contemporanei, saprebbe suggerirci una poesia sul valore dell’adozione o della maternità?

Una tra le più belle e straziate poesie sulla maternità è Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini, nella quale Pasolini legge pubblicamente la propria condanna all’amore insostituibile della propria madre. Eccola:

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

  • Cosa è per lei la letteratura?

In questo momento della mia vita la letteratura è il modo privilegiato che ho per comprendere gli altri e la realtà.

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