La funzione dei casi

Nel greco antico, la funzione sintattica di un nome o di un aggettivo non è determinata dall’ordine delle parole, come avviene in italiano, ma dalla desinenza che la parola assume, ovvero dal caso grammaticale. Questa caratteristica conferisce alla lingua greca una notevole flessibilità nell’ordine delle parole, consentendo di esprimere sfumature di significato e di enfatizzare determinati elementi della frase.
I casi grammaticali nel greco antico sono cinque: nominativo, genitivo, dativo, accusativo e vocativo. Ciascuno di essi svolge funzioni specifiche: il nominativo indica il soggetto della frase, il genitivo esprime specificazione o possesso, il dativo è utilizzato per il complemento di termine, l’accusativo per il complemento oggetto, mentre il vocativo è impiegato per l’invocazione o l’apostrofe.
La comprensione e l’analisi dei questi elementi grammaticali sono fondamentali per interpretare correttamente i testi greci antichi, poiché permettono di cogliere le relazioni tra le parole e di apprezzare la ricchezza espressiva della lingua. In questo articolo, esploreremo in dettaglio le funzioni dei casi nel greco antico, illustrando con esempi come ciascun caso contribuisca alla costruzione del significato nelle frasi.
La funzione originaria dei casi
Come afferma il libro Commento alla grammatica greca di Georg Curtius, presso un ampio numero di studiosi, e perfino tra alcuni linguisti di fama, è ancora molto diffusa l’opinione secondo cui i casi, in origine, indicassero rapporti locali. Secondo questa teoria, da tali rapporti spaziali si sarebbe poi progressivamente giunti all’espressione di relazioni intellettuali. A una prima lettura, tale idea sembra in armonia con un principio fondamentale della linguistica moderna, che invita sempre a partire da ciò che è intuitivo e concreto, in opposizione a ciò che è astratto.
In effetti, i rapporti di direzione locale appaiono più immediatamente evidenti rispetto ai rapporti logico-sintattici tra i membri di una proposizione. Per questa ragione, sembrerebbero costituire una base più naturale e comprensibile.
Una teoria fragile: le contraddizioni del localismo
Tuttavia, un’osservazione più attenta rivela che questa apparente coerenza svanisce, lasciando emergere numerose difficoltà. Se davvero la lingua avesse considerato l’azione verbale come un movimento che, partendo dal soggetto, si dirige verso l’oggetto, allora il luogo verso cui si dirige tale spostamento avrebbe potuto giustificare la nascita del caso oggettivo (accusativo). Ma, coerentemente, il luogo da cui il movimento proviene avrebbe dovuto dare origine al caso soggettivo (nominativo). In tal modo, per gli altri casi non rimarrebbe che un unico rapporto spaziale: il luogo in cui avviene il movimento.
Se si volesse portare questa supposizione alle sue logiche conseguenze, si arriverebbe all’assurdità che il nominativo dovrebbe coincidere con l’ablativo – e, nel caso si considerasse il genitivo come suo sostituto, anche con questo. Ma nessuno avrebbe mai il coraggio di sostenere tale ipotesi.
Il vero punto di partenza: le forme dei casi
L’unico punto di partenza solido per una teoria dell’uso dei casi, benché spesso ignorato dai sostenitori della teoria localista, è costituito dalle forme stesse dei casi grammaticali. Osservando tali forme, emerge subito un gruppo di casi strettamente collegati tra loro: il vocativo, il nominativo e l’accusativo.
Questi tre, nel neutro, sono sempre identici in tutte le lingue indoeuropee. Inoltre, nessuno di essi mostra affinità con gli altri casi (come accade invece, ad esempio, nel latino, dove dativo e ablativo plurale coincidono nella forma, oppure nel greco, dove nel duale il genitivo e il dativo sono identici).
Il vocativo e il nominativo
All’interno di questo gruppo, il vocativo si distingue per l’assenza di ogni segno di caso: esso rappresenta semplicemente il tema nudo, la parola nel suo stato primordiale, prima ancora dell’applicazione di qualsiasi flessione. Il vocativo è lo strumento mediante cui si chiama qualcuno o qualcosa.
Il nominativo, invece, si configura chiaramente come il caso del soggetto. Sembra che il suffisso -o del nominativo coincida con il tema del pronome dimostrativo, che, se usato isolatamente, in greco corrisponderebbe a lo. Questa intuizione fu riconosciuta per primo da Bopp. La lingua avrebbe dunque indicato il soggetto della proposizione come elemento principale, servendosi di un pronome dimostrativo adoperato in modo simile a un articolo, ma posto dopo il tema.
L’accusativo
Il naturale opposto del soggetto è, evidentemente, l’oggetto. Non è altrettanto chiara, tuttavia, la formazione dell’accusativo come lo è quella del nominativo. È interessante osservare che nel neutro – cioè nelle parole che, per il loro significato, non possono essere soggetti di un’azione in senso attivo ed energico, come accade invece per i maschili e i femminili – il caso dell’oggetto (accusativo) svolge anche la funzione del caso del soggetto. L’accusativo ricopre, in relazione all’ipotesi del movimento, la funzione di altri complementi che indicano cambiamento locale, quali quello di estensione nello spazio, di tempo continuato e di moto a luogo.
I casi obliqui
Il genitivo e il dativo, così come si presentano nella lingua greca, non possono, né devono, essere considerati casi semplici, retti da un principio unico e univoco, bensì piuttosto come casi obliqui, amalgamati – mistici, come li definisce a ragione Pott – che accolgono e conservano, per via d’antica eredità e per necessità d’adattamento, funzioni appartenenti a più casi originari dell’indoeuropeo. Nello studio attento e meditato di questi casi, non sarà dunque mai lecito, né metodologicamente fruttuoso, il ricondurre i loro molteplici impieghi ad un solo concetto generatore: essi, piuttosto, costituiscono la somma e l’armonizzazione di funzioni distinte, talora affini, talaltra lontane, che il lento ma costante decadere del sistema casuale primitivo costrinse la lingua a riunire sotto un unico segno formale.
Il genitivo
Il genitivo, solo in apparenza il caso del possesso, della dipendenza, del rapporto che lega una cosa all’altra in un vincolo di appartenenza o di origine, viene usato anche per indicare il punto di provenienza e la separazione. Nel suo seno rivela chiaramente la sopravvivenza di quello che fu l’ablativo indoeuropeo: caso che, espresso originariamente con distinta forma, indicava appunto ciò che si distacca, ciò da cui si parte, ciò da cui si è generati o da cui si riceve. Mediante l’impiego di preposizioni, il genitivo esprime anche i complementi di agente, allontanamento e materia.
Il dativo
Quanto al dativo, il discorso si fa ancor più complesso. La lingua greca, nel suo stadio più evoluto, mostra il dativo come caso d’ampia e varia portata. È il caso del beneficiario – colui per cui o a cui qualcosa è diretto –, ma anche dell’unione, della compagnia, del mezzo, della posizione. E da ciò si deduce, come già si accennò, che esso non è il solo erede del dativo indoeuropeo, ma raccoglie anche le funzioni dello strumentale e del locativo, casi un tempo distinti, poi fusi in un’unica forma dalla storia fonetica e morfologica del greco.
Il dativo comitativo, che indica l’unione («σὺν τοῖς φίλοις», ma anche semplicemente «τοῖς φίλοις»), richiama l’antico strumentale, caso col quale le lingue arcaiche esprimevano il mezzo, lo strumento, la compagnia. Il dativo strumentale, quale troviamo in espressioni come τῇ χειρί, «con la mano», è pur esso retaggio di quel medesimo caso. E infine il dativo locativo, che esprime la posizione fissa, il «dove», si conserva nei dativi statici come ἐν τῷ οἴκῳ, ma anche senza preposizione: τῇ ἀγορᾷ, «nella piazza».